lunedì 5 dicembre 2011

Mediazione vs “cultura” italiana: incontro o scontro?


Mi capita talvolta di leggere i post di alcuni gruppi che inneggiano alla “lotta” contro la mediazione, soprattutto per essere in qualche modo informati su quello che dicono gli altri.

Una frase che ricorre spesso è che la mediazione dovrebbe essere “stroncata” (come istituto nel suo complesso…) poiché non sarebbe in linea con la nostra cultura. Allora, cerco di approfondire questa provocazione per cercare possibili risposte. Mi viene allora in mente una pagina scritta dal prof. Giovanni Cosi (Università di Siena), che è molto interessante in proposito.

Egli ricorda che il titolo preliminare del Codice di procedura civile del 1865 era “Della conciliazione e del compromesso”. L’art. 1 recitava “I conciliatori, quando ne siano richiesti, devono adoperarsi per comporre le controversie”. Seguivano gli altri articoli (fino al 7) che regolavano l’istituto. Nella relazione di presentazione il Ministro Guardasigilli Giuseppe Vacca sottolineava di aver voluto dare riconoscimento e valorizzazione alla conciliazione in quanto strumento di risoluzione delle controversie la cui presenza era tradizionalmente consolidata in molti ordinamenti preunitari, soprattutto in Italia meridionale. La situazione è purtroppo ben diversa nel Codice di procedura civile del 1942, nel quale, per trovare un accenno alla conciliazione, occorre andare fino all’art. 183.

Nell’edizione del 1896 del Digesto Italiano, Lorenzo Scamozzi ha scritto la voce “Conciliatore – conciliazione giudiziaria”. Un vero e proprio trattato dedicato agli aspetti storici e culturali dell’istituto. Cosi afferma che se non fosse per lo stile, ovviamente datato, queste pagine potrebbe trovare tranquillamente spazio all’interno di un saggio contemporaneo sui metodi ADR. Purtroppo lo stesso non si può dire del Nuovo Digesto Italiano (1938), nel quale Mario Ricca-Barberis, ordinario di diritto processuale civile dell’Università di Torino, ha liquidato la conciliazione ritenendola sostanzialmente inutile.

Nel passaggio dalla vecchia alla nuova impostazione si assiste a un’evoluzione da una concezione della soluzione delle controversie anche come servizio a un’impostazione in cui il potere decisionale basato sul modello processo-giudizio diventa prevalente, se non esclusivo. All’affermarsi di forme forti di stato, basate sull’accentramento del potere politico e sulla pervasività del controllo sociale, tende a corrispondere una nozione di ordine di tipo imposto, piuttosto che negoziato.

Quindi, la domanda è: siamo così convinti che la mediazione non faccia parte della cultura italiana? O forse, sarebbe solo necessario approfondire un po’ il concetto per scoprire che la mediazione va proprio incontro alla nostra tradizione, ancorché in qualche modo “coperta” da “sovrastrutture” successive?

Tratta da G. Cosi-G. Romualdi, La mediazione dei conflitti, Giappichelli, Torino, 2010, p. 9.

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