domenica 12 maggio 2013

Articolo da Mediare senza confini - Lapalisse


Dal blog di Carlo Alberto Calcagno, (link) riporto un bel post che mi permette di ricordare a tutti quelli che vogliono "processualizzare" la mediazione che essa è cosa ben diversa dal processo...
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Se disegno delle linee che si incrociano posso chiamarle "linee che si incrociano" oppure rettangolo, chiave inglese oppure bastone da passeggio. Ma una volta che le ho chiamate, che le ho definite non posso più tornare indietro. 

Se scrivo delle parole su un pezzo di carta e le chiamo processo, non posso dire che si tratti di una chiave inglese. Parimenti se le chiamo mediazione, non posso dire che siano un processo, perché diversamente le avrei chiamate processo.

Gli uomini hanno una così grande urgenza di definire tutto perché in questo modo sono vanamente convinti di salvare qualcosa dalla precarietà, ma non si rendono conto di imporsi dei limiti.

Certo le convenzioni servono in una vita associata perché diversamente non riusciremmo a comunicare, ma allora cerchiamo di essere precisi una volta che ci siamo indotti a dare una definizione: il dado è tratto.

Un'altra strada potrebbe essere quella del Giappone dove il termine chotei si usa in cinque diversi sensi, senza che ci sia la minima confusione: esso indica l'istituzione o l'intero sistema di mediazione, la procedura di mediazione, l'atto di mediazione stessa, la sostanza del contratto o compromesso sancito in forma scritta ed in ultimo l'incontro dei consensi.

Ma noi non viviamo in Giappone e non crediamo nell'etica del vago. E dunque non applichiamo alla mediazione le caratteristiche del processo, perché perlomeno per coerenza logica dovremmo applicare al processo le caratteristiche della mediazione. E sarebbe una grande confusione. Teniamoli distinti.

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