venerdì 16 agosto 2013

Qualche considerazione vacanziera sul conflitto (soprattutto) ed il famoso primo incontro in mediazione...

Photo credits
“Nel mezzo del cammin di nostra vita...”, iniziava così una delle opere più conosciute della letteratura italiana. Nel mio caso potrei iniziare con “nel mezzo del cammin delle mie vacanze”; infatti avendo a disposizione una mattinata di riflessione, e dovendo iniziare a lavorare alla seconda edizione del manuale che abbiamo scritto con gli amici e colleghi Alessandra Passerini e Marco Marinaro, ne approfitto per prenderla alla larga e anziché concentrarmi su mediatori di diritto e gratuità in caso di mancato accordo (argomenti che, onestamente, mi lasciano molto perplesso), preferisco approfittarne per fare qualche considerazione sul conflitto e sul “primo incontro” (che non ha nulla a che vedere ahimè con qualcosa di sentimentale, ma che riguarda una delle novità più importanti sulla mediazione introdotta negli ultimi giorni da alcuni emendamenti che definire “discutibili” è un eufemismo), cercando di tracciare una linea di sintesi rispetto alle conclusioni a cui sono arrivato (solo sul conflitto, perché sul primo incontro la riflessione è ancora in una fase iniziale), dopo anni di esperienza, studi e, soprattutto, applicazione, nella sfera professionale come nella vita di tutti i giorni.
In questo senso, se mi guardo indietro, agli anni della mia gioventù ed anche ai primissimi anni di (presunta) maturità (anche se in un film italiano di qualche anno una delle protagoniste diceva che “l’età media in cui gli uomini escono dall’adolescenza è 60 anni”), a quell’epoca pensavo che il conflitto fosse una situazione da evitare perchè la vita si deve svolgere cercando costantemente la tranquillità (magari anche finta), senza incorrere in questa “seccatura” che toglie tempo, risorse (mentali e materiali) e, tutto sommato, ci rovina la vita. Così, la via migliore per “vincere” in un conflitto era quella di evitarlo, fuggire, scappare per non doversi trovare faccia a faccia con esso e, soprattutto, dover affrontare le necessarie implicazioni emotive che esso porta e comporta. E se non era possibile fuggire? Be’, allora come si dice a Roma, “chi mena pe’ primo, mena du’ vorte”. 

Ecco, prendo ad esempio questa citazione tratta dalla cultura popolare della mia città per interpretarla non certo nel senso della violenza fisica, ma nel senso della assoluta necessità di “vincere” (“menando” per primo, appunto), cercando di ottenere il massimo per sè senza rispetto per l’interlocutore (che spesso era un antagonista, se non un avversario o un vero e proprio nemico). Ecco il mio personale “amarcord” su “come eravamo” (citando i titoli di un paio di famosi film), anzi ero... per questo nel corso di una conferenza nel novembre dello scorso anno sulla vendetta e sul suo ruolo nella società ho esordito dicendo che sentivo mio quell’argomento perchè sono essenzialmente “un vendicativo guarito e, se non proprio guarito, almeno ravveduto”.

Ma anni di studi e, come dicevo, di applicazione sul conflitto e di vera e propria “passione” per l’analisi delle sue dinamiche, dei meccanismi di escalation e, soprattutto, de-escalation e delle modalità per gestirli e, se possibile, trasformarli in modo costruttivo, non possono essere passati invano, anche perché se è vero che “chi sa fa, chi non sa insegna...” (chissà, magari è anche per questo che faccio il formatore, proprio perché non so fare!) è anche vero che secondo me il formatore più efficace è proprio colui/colei che lavora su sè stesso/a e con gli altri cercando di mettere in pratica le cose di cui parla e scrive, perché ritengo non ci sia esperienza migliore di quella che si può fare sulla propria pelle, nel bene e, soprattutto, nel male.

Così da qualche anno ho maturato la convinzione che il conflitto sia invece il “sale” della vita, quello che davvero fa la differenza e che tutto sommato sia una situazione normale, rispetto alla quale il problema non è certo l’esistenza del conflitto in sé, ma soprattutto il modo con cui noi lo gestiamo, ricordando che il non gestire lo conflitto in realtà è un modo per gestirlo (spesso anche quello meno adatto). In questo concetto di conflitto che ho presente nella mia mente non esiste una “giustizia”, nel senso che quando viviamo una controversia non c’è una risposta “giusta” , ma semmai esiste una risposta “adatta”, che tenga conto di tanti diversi elementi, a cominciare dai nostri interessi (a parte il fatto che spesso la risposta non è quella singola, unica, cosa che andiamo vanamente cercando - e magari non troveremo mai - nemmeno fosse l’ultima e più importante tessera di un mosaico molto complesso - quanto piuttosto è in realtà un ventaglio di possibili ipotesi di soluzione che possono essere date in una determinata situazione, da cui “tiriamo fuori” poi quella che riteniamo essere la più adatta alla situazione). 

Questo non significa che un conflitto non vada mai evitato o che sia necessario essere collaborativi in ogni circostanza; significa invece, dal mio punto di vista che, prima di decidere cosa fare (evitare un conflitto, cercare di gestirlo con modalità competitive, remissive o collaborative), sia assolutamente necessario inquadrare la situazione o la persona rispetto alle proprie priorità ed obiettivi (personali prima ancora che professionali). Cerco di spiegarmi: ritengo che di fronte ad una specifica situazione, prima di decidere un qualsiasi approccio, sia fondamentale comprendere quali sono le nostre finalità. Cosa vogliamo raggiungere con quella specifica interazione? Quale interesse abbiamo alla relazione con quella persona? Quali potrebbero essere le conseguenze di determinati comportamenti rispetto alla relazione e rispetto al nostro modo di vedere noi stessi e la persona che abbiamo di fronte? Quali sono i benefici di una eventuale soluzione e gli eventuali svantaggi legati al fallimento? Queste sono solo le prime domande che mi vengono in mente, ma ce ne potrebbero essere tante altre per decidere cosa fare (prima ancora che come farlo) in una qualsiasi controversia.

Infatti la prima risposta, spesso influenzata da quella impulsività che, ad es. fa parte del “corredo genetico” del mio carattere, risulta essere quella meno adatta alla situazione. Attenzione, la gestione delle controversie non è un concorso a premi dove è importante dare per primi la risposta giusta... è invece un’attività fatta di profonde riflessioni, di pause e di raccolta delle idee che vanno dapprima pensate e poi selezionate/definite/affinate sulla base di un personale “brainstorming” che deve portare a delle elaborazioni che producono “la” risposta (anzi “le” possibili ipotesi di risposta, come abbiamo detto anche in precedenza). 

Nel corso di queste elaborazioni le informazioni in nostro possesso devono essere raccolte, analizzate, approfondite, alla ricerca di motivazioni, obiettivi, interessi ecc. che tengano conto certo di noi stessi, ma anche del nostro interlocutore. Infatti, non possiamo pensare di gestire qualcosa che ci lega a qualcun altro se pensiamo solo a noi, unicamente al nostro personale “universo”, al nostro solo modo di vedere le cose che per carità potrà anche essere il più efficace, ma che resta tuttavia sempre una rappresentazione “di parte”, una metà che deve essere integrata con l’altra metà che è fornita, appunto, dalla persona che abbiamo di fronte (ogni riferimento al mito delle due metà della mela di Platone è puramente voluto, solo riferito ai conflitti e non ai rapporti sentimentali, anche se ho sempre ritenuto che questi ultimi siano decisamente un buon banco di prova).

In questa elaborazione devono inoltre essere necessariamente considerati gli aspetti legati alle emozioni... infatti, più siamo coinvolti in una situazione di conflitto e più dobbiamo fare ogni sforzo per separare gli aspetti razionali da quelli emozionali. Una delle consapevolezze che ho raggiunto in questi anni è che tutti, anche le persone più emotivamente “avvedute” quando si trovano coinvolte nel c.d. “sequestro emotivo” (lo definirebbe così Daniel Goleman) ragionano con questo “filtro” in modalità “on” e questo, volente o nolente, “altera” ogni nostra percezione sulla situazione che stiamo vivendo (con conseguente “potenziamento” delle c.d. “barriere cognitive). Ecco perché è opportuno mettere tra sè ed il conflitto che stiamo vivendo lo spazio sufficiente per cercare di vederlo dall’interno (come lo viviamo), ma anche dall’esterno (quali potrebbero essere le prospettive di altre persone, ad iniziare dalla persona con cui abbiamo il problema? In questo senso mi vengono in mente i “sei cappelli per pensare” di De Bono). 

Facile? NO, MAI! Faticoso? SI’, SEMPRE! E‘ la mia risposta forte e decisa, assertiva direi... ma è uno sforzo che diventa fondamentale se vogliamo avere il quadro il più possibile ampio, come contesto nell’ambito del quale elaborare le informazioni a nostra disposizione. L’obiettivo deve essere trovare il modo più efficace per gestire una controversia e più informazioni abbiamo a disposizione e più è complesso e semplice allo stesso tempo elaborare le ipotesi di soluzione più “adatte”. Non dimenticando che il supporto/l’aiuto/la consulenza di qualcuno vicino a noi, che gode della nostra fiducia, è utile (in certi casi opportuna), soprattutto se la funzione di chi ci sta vicino è quella dell’ascolto e della facilitazione, più che della valutazione.

Con gli anni ho imparato che quando le persone hanno un problema e te ne vogliono parlare, spesso, appunto, te ne vogliono solo parlare, vogliono sfogarsi e/o semplicemente sentirsi ascoltate e non lo fanno certo per avere opinioni (se non quando sono esplicitamente richieste). In questo senso, nel tempo ho cercato di lavorare sulle mie capacità di ascolto, aspirando ad essere facilitativo, riportando semmai quello che la persona mi diceva, parafrasando, riformulando, ma cercando in tutto i modi di non essere valutativo (“stare sul balcone” direbbe William Ury). Spesso non serve una valutazione, perché penso che a nessuno serva un parere non richiesto (che peraltro fa piacere solo a chi lo da, come dice il buon Giovanni De Berti in un famoso video sulla mediazione).

Da queste poche righe credo e spero si possa comprendere l’importanza di un terzo che, durante una mediazione, aiuta le parti a intraprendere un percorso delicato, particolare, a volte tortuoso e che richiede del tempo, che solo queste possono fare ma che, quando porta ad un accordo, rappresenta spesso una completa “ristrutturazione” della loro relazione e davvero può essere utile per la propria vita, non solo per la controversia specifica.

Ora, mi riavvicino all’obiettivo che mi ero posto nella mattinata e mi pongo una domanda: che c’entra tutto questo con la revisione del manuale, visto che volevo lavorare su questo? Apparentemente poco o nulla, ma in realtà, secondo me in realtà c’entra tantissimo. Ora, è vero che io mi considero un “trasversale” per natura e quando parto per la tangente cerco di percorrerla fino in fondo (d’altra parte il pensiero laterale di cui parla De Bono è una sua felice intuizione applicata a tanti campi nella vita). Tuttavia ritengo che se analizziamo le modifiche alla mediazione inserite dapprima nel “decreto del fare” e poi nella legge di conversione (che sarà pubblicata a giorni) mi domando ad es. se nel corso del famoso “primo incontro” il mediatore riesca a fare l’attività di cui abbiamo parlato in precedenza e soprattutto cosa deve essere cambiato (a lume direi molto) nella formazione e nelle competenze stesse dei mediatori per accompagnarli in modo efficace nella comprensione (nei corsi-base) e nell’approfondimento (nei corsi di aggiornamento) di una metodologia che rappresenta certamente un percorso efficace ma su cui, alla luce delle recenti modifiche normative, è necessario essere chiari, sintetici, esaustivi ma al tempo stesso “attraenti”, al fine di persuadere le parti (ed i loro avvocati) che la mediazione, o meglio il primo incontro, non è solo un obbligo, ma rappresenta soprattutto un’opportunità e non per uno scopo deflattivo, perché c’è un ritardo mostruoso nella giustizia italiana, ma innanzitutto perché la mediazione, quando porta ad un accordo reca con sé tanti vantaggi, soprattutto in termini di relazione, per le persone coinvolte ed anche se l’accordo non si raggiunge il tentativo non sarà stato comunque vano, perché comunque è servito a ristabilire il percorso del dialogo che si era comunque interrotto. 

Credo che stare bene faccia piacere a tutti ed è un nostro obiettivo, anche se spesso non ce ne rendiamo conto e, diciamo la verità, a parole cerchiamo il benessere, ma in pratica, dietro “maschere” rappresentate da prese di posizione, questioni di principio, ecc. facciamo di tutto (chissà, magari anche perché talvolta siamo mal consigliati...) per metterci nelle condizioni per stare peggio di come potremmo stare, alle volte semplicemente limitandosi a “contare fino a dieci” (magari talvolta anche cento o mille, a seconda delle circostanze, ovviamente)... Ecco, questo è quello che, soprattutto, ho capito in tutti questi anni... magari sarà poco, ma almeno è sicuro: in una situazione di conflitto è opportuno contare fino a dieci o come dico sempre a mia moglie, “non dire la prima cosa che ti viene in mente nel momento esatto in cui ti viene in mente”  ;)

Buon proseguimento di vacanza a tutti coloro i quali pensano che anche una singola persona possa fare la differenza, nella risoluzione dei conflitti come nella vita... 

Stefano

ps Il post è stato pubblicato anche su L'AltraPagina.it (link)

Nessun commento:

Posta un commento